Il valore simbolico della luce

Luci e ombre danno forma anche agli spazi interni, offrendo un’importante chiave di lettura per la comprensione dell’opera architettonica e del pensiero che la sottende. In un luogo sacro la luce evoca il divino pur con declinazioni diverse nel corso dei secoli.

È il grande “occhio” centrale di 9 metri di diametro che illumina lo spazio interno del Pantheon, modellando in maniera suggestiva i cassettoni digradanti della cupola emisferica. Il tempio venne edificato nella sua forma attuale per volere dell’imperatore Adriano al quale Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano fa virtualmente proferire queste parole:

«Mi si era imposta la costruzione d’un tempio a tutti gli dèi, d’un pantheon; ne avevo scelto l’area sulle rovine delle antiche terme pubbliche offerte al popolo romano da Agrippa, genero di Augusto. Del vecchio edificio non restava null’altro che un portico e la lastra di marmo d’una dedica al popolo di Roma, che fu ricollocata accuratamente, così com’era, sul frontone del nuovo tempio. […] Delle arti della Grecia volli servirmi per le decorazioni, come per un lusso supplementare, ma per la struttura dell’edificio ero risalito ai tempi primitivi e favolosi di Roma, ai tempi rotondi dell’Etruria antica. Avevo voluto che quel santuario di tutti gli dèi riproducesse la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. […] La cupola, costruita d’una lava dura e leggera che pareva partecipe anche del movimento ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro. Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco del giorno vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d’oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli dèi».

Pantheon, II secolo d.C.
Roma.

Interno e spaccato.

         

Sono i mosaici, che rivestono le superfici murarie delle chiese bizantine, a riflettere la luce “smaterializzando” i volumi e creando una dimensione spirituale. Esempio significativo è la Basilica di San Marco al cui interno l'attenzione si sperde facilmente nello sfavillio dell'oro che pervade tutte le volte, le cupole e la parte superiore dei grandi pilastri, ricoperti da oltre 4000 mq di mosaico. Una gigantesca Bibbia illustrata si apre sulle pareti ad esaltare la Chiesa di Cristo e ad insegnare la storia sacra ai fedeli.

Basilica di San Marco, IX-XVI secolo
Interno e cupole
Venezia.

                      

Ben diversi sono gli effetti di luce nelle chiese romaniche le cui massicce e pesanti costruzioni, espressione di forza e di austerità, sono aperte da scarse e strette feritoie. Al loro interno è la semioscurità ad avvolgere il fedele invitandolo al raccoglimento.

San Michele
prima metà del XII sec.
Pavia.

Sant’Ambrogio, XI sec.
Interno
Milano.

Viceversa le cattedrali gotiche, altissimo esempio di creatività e arditezza costruttiva, si caratterizzano per leggerezza, verticalità, trasparenza, luminosità; le mura si smaterializzano per lasciare il posto alla luce solare, sapientemente filtrata dalle splendide vetrate istoriate. Esternamente cuspidi e pinnacoli accentuano il verticalismo delle strutture che, innalzandosi vertiginosamente verso il cielo, invitano il credente nel simbolico viaggio verso il divino.

Santa Maria Gloriosa dei Frari
XIV - XV sec.
Venezia.

Santi Giovanni e Paolo, XIV – XV sec.
Interno e vetrata
Venezia.

Razionale è la luce che vibra lungo le candide pareti delle chiese rinascimentali, progettate secondo rigorosi rapporti matematici e in cui la “bellezza” è accordo e armonia tra le parti. Per gli artisti dell’epoca, quest’armonia modellata dall’uomo era l’eco visibile di un’armonia celeste e il bianco, colore della purezza, si addiceva ad evocare il trascendente.

Andrea Palladio
Redentore, 1577-92
Venezia.

Andrea Palladio
San Giorgio Maggiore, 1566-1611
Interno
Venezia.

Particolare interno Redentore.

Teatrale ed emotiva è al contrario la luce che inonda scenograficamente gli interni delle chiese barocche in cui gli artisti, facendo uso dello scorcio e della prospettiva illusionistica, sfondarono gli spazi verso l’infinito creando effetti spettacolari atti a coinvolgere il fedele in un’esperienza sensoriale. Persuasione e fascinazione furono i segni principali del linguaggio barocco.

Baldassarre Longhena, Giuseppe Sardi
Santa Maria di Nazareth degli Scalzi, 1660-89
Venezia.

Pietro Ricchi e Antonio Torri
Soffitto di Sant’Alvise, realizzato nel corso del ‘600
Venezia.

         

Una suggestiva penombra accoglie il visitatore nella chiesa di Nôtre-Dame-du-Haut, uno dei più celebri esempi di moderna architettura religiosa, progettata da Le Corbusier a Ronchamp, vicino al confine franco-svizzero. La costruzione, dalla forma irregolare, è caratterizzata dalla convessità della copertura leggermente staccata dalle pareti perimetrali, ciò consente di lasciar penetrare uno spiraglio di luce radente. Inoltre una costellazione di piccole aperture irregolari, chiuse da vetri colorati, crea un’atmosfera particolarmente adatta al raccoglimento.

Le Corbusier
Nôtre-Dame-du-Haut, 1952-55
Ronchamp.

Interno.

Tracce di sacralità si possono creare anche con l’illuminazione elettrica, come dimostra il permanente e ambizioso progetto – Untitled, 1996 - concepito prima di morire da Dan Flavin (1933-1996) per Santa Maria in Chiesa Rossa a Milano. Qui l’artista ha realizzato una forma di sublime tecnologico con l’intento di sostituire all’oro del mosaico e al pigmento dei dipinti i riverberi colorati dei tubi al neon.


Giovanni Muzio
Santa Maria in Chiesa Rossa, 1931
Illuminazione di Dan Flavin, 1996
Milano.

         

Anche un fenomeno astronomico può assumere un valore mistico: nella chiesa di Santa Maria di Vezzolano la luce del sole appare come “tinta” di divino.


Annunciazione
Santa Maria di Vezzolano, XI sec.
Asti.

         

«Fra le raccomandazioni di Gerberto d’Aurillac, poi salito al trono pontificio con il nome di Silvestro II (999-1003) e autore, forse, di un Liber de Astrolabio che potrebbe aver favorito l’uso di questo strumento – l’astrolabio appunto – nella costruzione delle chiese, c’era quello di orientarle “versus Solem orientem”, secondo un’indicazione già ufficializzata dal primo Concilio di Nicea del 325. Del resto, il sole era metafora astronomica di Cristo, come ammetterà pure san Francesco che scrisse: “di Dio porta significatione”. A dispetto dei difficili calcoli astronomici, si poteva orientare l’edificio verso il sole con semplici accorgimenti geometrici. Per esempio, si poteva calcolare la linea equinoziale d’orientamento con l’ombra di uno gnomone (un bastone ìnfisso nel terreno), mentre, secondo le teorie dell’archeoastronomo Adriano Gaspari, la struttura geometrica e astronomica della chiesa si calcolava sulla base del cosiddetto “poligono di Dio”, un decagono nel quale il raggio del cerchio generatore corrispondeva alla distanza fra il centro dell’abside e l’angolo di facciata. Entrambe le condizioni sono rispettate a Vezzolano, dove il raggio corrisponde alla significativa distanza di cento piedi romani. In virtù di queste condizioni, nella chiesa, il sole entra dalla bifora di facciata due volte l’anno (ai primi di novembre e ai primi di febbraio) e illumina la scena dell’Annunciazione scolpita sulla cornice della monofora dell’abside. Non solo, ma ogni 18,61 anni solari tropici, la luna passa sull’orizzonte locale in modo da essere intercettata dalla monofora dell’abside. A questo punto assume un valore assai significativo la scritta dello jubé che recita: “Colloca, o Cristo, sopra le stelle la pia Maria”». (Bussagli 2010)

Jubé, 1230 ca.
Intero e particolare.

Diverso, ma altrettanto significativo, è il valore simbolico della luce nel museo progettato da Libeskind a Berlino. La pianta, che ricorda una saetta, segna il cuore della città ed è un segno intriso di violenza, di terribilità: una ferita che si presenta volumetricamente come un muro spezzato e lacerato da lame di luce. L’interno è cupo, lo spazio è claustrofobico e la sensazione di chiusura, di ghetto accompagna costantemente il visitatore. L’abitabilità è data dalla luce naturale che penetra dalle oltre millecinquecento finestre-feritoie e difficile è il dialogo con l’esterno che viene solo spiato, intravisto; come in ogni labirinto, si può uscire solamente ritrovando l’accesso dal quale si è entrati.

Daniel Libeskind
Jüdisches Museum, 1988-99
Berlino.