Le declinazioni dell’ombra

La percezione di una forma varia a seconda dei contesti socio-culturali.
Nell’antico Egitto la figura umana - rappresentata come un ideogramma - era colta nei suoi aspetti essenziali e contemporaneamente da più punti di vista, per restituirne le forme conosciute in pochi millimetri di spessore. «In realtà non è il corpo che decide il significato. Sono le capacità combinatorie della scrittura geroglifica che lo rivestono e permettono le trasfigurazioni del re in Horus, in Thot o in Osiride. Variazioni di attributi che accadono dentro il divenire della scrittura e non come modificazioni morfologiche della persona». (Scolari 2005, p. 70)
L’ombra era la forma immateriale dell'uomo e veniva identificata con il defunto.

Harendotes intercede con la regina Nefertari presso Osiride, XIII sec. a.C.
Particolare dalla tomba di Nefertari nella necropoli di Tebe.

Ramesse I accolto da Harsiesi e Anubi,
II sec. a.C.
Particolare
Valle dei Re.

Il defunto come ombra, XX dinastia
Tomba di Arinefer
Deir el Medina.

La vivacità della descrizione naturalistica caratterizza l’arte dell’antica Roma ed è proprio l’uso delle ombre ad accentuare l’effetto illusionistico nelle rappresentazioni di cose e persone. Fortemente realistica è “la stanza non spazzata”, uno dei più noti mosaici antichi: l’imitazione della realtà in senso illusionistico è qui evidenziata dalla giusta interpretazione delle ombre portate sul pavimento e di quelle proprie dei vari oggetti rappresentati in modo accurato. Ciò restituisce all’osservatore la verosimiglianza dell’immagine che, per la sua valenza senza dubbio simbolica, venne utilizzata nella decorazione di luoghi di culto cristiani. «È stato notato che esisteva nella precettistica pitagorica, molto seguita dalle classi colte, una precisa regola che vietava di raccogliere ciò che era caduto in terra, probabilmente in omaggio agli amici defunti che non potevano partecipare al banchetto della comunità dei discepoli». (Pesando 2010)

Asaratos oikos – Stanza non spazzata,
copia risalente al II secolo d.C.
da un originale ellenistico di Sosos di Pergano.
Particolare
Roma, Musei Vaticani.

Eracle,
particolare da una pittura parietale
di Ercolano, I sec. a.C.
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Scene di vita quotidiana nel Foro romano,
I sec. d.C.
Frammento di decorazione parietale proveniente da Pompei
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tutti i trattatisti concordano nell’attribuire all’ombra il merito di aver favorito la nascita della pittura, affermando - a cominciare da Plinio (23-79 d.C.) - che tutto nacque dall’dea di scontornare con una matita o un pennello l’ombra di una figura proiettata su una parete. Secondo la leggenda, l’autrice fu una fanciulla che, per trattenere l’immagine dell’amato in partenza per un viaggio o per la guerra, ne tratteggiò l’ombra creando una figura sostitutiva, come appare nell’opera del pittore preraffaellita Edmund Blair Leighton, autore di romantici soggetti d’ambientazione medievale. L’ombra, quasi ad esorcizzare la morte, sigilla la figura nella posizione di massima evidenza, di profilo, oscura impronta che rappresenta magicamente l’essere.

L’ombra serba in sé anche una connotazione negativa in quanto «rappresenta l’incertezza, l’oscurità, l’incapacità di vedere con nitore e per questo, Platone, nel mito della caverna, utilizza le ombre per spiegare l’erronea percezione della realtà da parte dei prigionieri, incatenati con le spalle all’ingresso e costretti a vedere solo le sagome di oggetti e uomini proiettati dall’esterno all’interno sulla parete di fronte a loro. Le ombre, quindi, rappresentano l’immagine più efficace della fragilità e della caducità della condizione umana che, nel pensiero platonico, può raggiungere la visione della realtà solo dopo un grande percorso di conoscenza». (Bussagli 2010, p. 19)
Il mito della caverna è così narrato da Jostein Gaarder nel romanzo Il mondo di Sofia:

«Immagina che un gruppo di uomini sia vissuto fin dall'infanzia in una caverna sotterranea, collegata all'esterno da una galleria piuttosto lunga. Immagina anche che questi uomini seduti con la schiena rivolta verso l'apertura, abbiano catene al collo e alle gambe e che quindi non possano girarsi verso la luce. Alle loro spalle, in prossimità dello sbocco della galleria, è acceso un gran fuoco, il cui riverbero colpisce la parete di fondo della caverna, l'unica che gli uomini incatenati possono vedere.

Edmund Blair Leighton
L’ombra, 1909
Anniston (Alabama), Berman Museum.

Ferdinand Loyen Du Puigaudeau
Ombre cinesi. Il coniglio, 1895

Tra loro e il fuoco, poi, c'è un muretto dietro il quale vanno e vengono alcuni uomini, portando oggetti di vario tipo (statuette di uomini o di animali, di legno o di pietra), a volte nel più assoluto silenzio, altre volte scambiandosi qualche battuta. Gli oggetti sporgono al di sopra del muretto e la luce del fuoco fa sì che le loro ombre si proiettino sulla parete di fondo della caverna. Per gli uomini in catene, quelle ombre sono l'unica cosa esistente. Immagina ora che uno degli abitanti sia riuscito a liberarsi dalla prigionia: di certo si chiederà da dove provengano tutte le ombre proiettate sulla parete della caverna. Che cosa credi che avvenga nel momento in cui si gira verso l’aperura della galleria? Naturalmente all’inizio sarebbe accecato dalla luce, ma subito dopo rimarrebbe colpito dagli oggetti, dal momento che fino ad allora li aveva visti solo come ombre. Se poi riuscisse a scavalcare il muretto, raggiungendo così lo spazio al di fuori della caverna, la sua meraviglia sarebbe grandissima; dopo essersi sfregato gli occhi, sarebbe infatti stupito da ciò che lo circonda: anzitutto scorgerebbe i colori e i contorni precisi, poi riuscirebbe a vedere anche gli animali e i fiori.

Poi alzerebbe gli occhi al cielo e, dopo qualche tempo, sarebbe in grado d’individuare il sole: allora capirebbe che è il sole a dare la vita ai fiori e agli animali che si trovano in natura, come nella caverna il fuoco gli permetteva di vedere le ombre. Questo gli fa venire in mente i suoi compagni rimasti imprigionati nella caverna e lo spinge a tornare indietro. Non appena giunge nella grotta sotterranea, cerca di convincere gli altri che le ombre riflesse sulla parete sono soltanto copie delle cose vere. Ma nessuno gli crede: tutti sono invece convinti che quella fuga gli abbia rovinato la vista (infatti, essendo passato dalla luce al buio, non riesce più a distinguere le ombre come faceva in precedenza) e che quindi non vale la pena di raggiungere il mondo esterno. A questo punto, c’è quasi da pensare che, se arrivasse qualcuno a liberare gli uomini incatenati, questi lo considererebbero un nemico pericoloso e, se solo ne avessero l’occasione, di certo lo ucciderebbero».

Primo giorno, XII sec.
Mosaico della cupoletta della Genesi
Venezia, San Marco.

«Così, quando “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”, insieme a questa nacque anche l’ombra, non senza implicazioni morali. Almeno così pare emergere dall’analisi dell’immagine del Primo giorno tramandataci dal mosaico della cupoletta della Genesi della basilica di San Marco a Venezia. Com’è stato ormai ampiamente dimostrato, la decorazione musiva di questa parte della basilica marciana deriva da un modello riconducibile alla Bibbia Cotton, un codice miniato del V-VI secolo, a noi giunto in un esemplare frammentario. I musivari che nel Duecento lavorarono nell’atrio di San Marco tradussero le miniature in forma monumentale rispettando, però, l’impianto generale, il colore e la forma dell’originale. Così la scena della separazione della luce dalle tenebre, ossia del giorno dalla notte, mostra due sfere: una rossa che è il fuoco, il sole e il giorno; l’altra blu che è l’ombra, la notte, il buio. L’aspetto morale risiede nel fatto che, a metà delle due campiture dello sfondo che dividono in due la scena, si trova un angelo con le ali aperte e le braccia allargate. Queste sono dello stesso colore del fondo, ovvero blu quelle che cadono nella notte e rosa, rosso e oro quelle che si estendono verso il giorno e la luce.

L’osservazione non è di poco conto perché vuol dire che contestualmente alla creazione della luce sono nati gli angeli, mentre dall’ombra sono nati i demoni. Lo dimostra con chiarezza il confronto con il celebre Giudizio universale della basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna dove alla separazione delle pecore dalle capre corrispondono le figure dell’angelo e del demone che ha le identiche fattezze dell’angelo rosso (espressione di luce), ma è di colore blu. Questo, infatti, è il colore dell’ombra […]. La scena rappresentata nel mosaico della basilica di San Marco, perciò, voleva illustrare la separazione della luce dall’ombra anche come metafora della separazione del bene dal male». (Bussagli 2010, pp. 18, 19)

Giudizio universale, VI sec.
Parabola del buon pastore
Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.

«Per il cristiano l’ombra […] conduce l’occhio nell’angolo oscuro della materia dove si cela il demonio, guardare in quella tenebra, ancorché solo rappresentata, può voler dire intercettare il suo sguardo senza rendersene conto, ed essere perduti». (Scolari 2005)
Cosicché, nel seguire i dogmi della Chiesa, per secoli l’arte medievale ignorerà la rappresentazione naturalistica ed oggettiva, proiettando lo sguardo dei fedeli in uno spazio metafisico.

Paolo Veneziano
Polittico di Santa Chiara, 1350 circa
L’incoronazione della Vergine
Venezia, Gallerie dell’Accademia.


Maestro di san Pietro
San Pietro in trono, 1280 ca.
Particolare della tavoletta con la Liberazione di Pietro
Siena, Pinacoteca nazionale.

La negazione dell’ombra

Eliminati gli elementi naturalistici, le rappresentazioni iconiche nella cultura e nell’arte medievali e bizantine erano impostate in funzione della leggibilità del racconto; non seguivano le leggi prospettiche d’imitazione della natura, ma dovevano far comprendere gli avvenimenti illustrati.
Perciò se il pittore doveva, per esempio, spiegare la liberazione di san Pietro dal carcere per intervento dell’angelo, poneva sullo stesso piano geometrico l’esterno e l’interno del carcere. In questo modo, paradossalmente, chi guarda ha, a colpo d’occhio, tutte le informazioni che servono per comprendere pienamente le circostanze in cui hanno luogo gli avvenimenti.

«Dal III secolo fino a Giotto, la rappresentazione della profondità è ottenuta con la così detta “prospettiva parallela”, che […] accosta due prospetti, toglie le ombre, sottolinea i profili, evita le sfumature che alludono alla corposità della terza dimensione. […] I pittori non devono inserire ombre proprie o portate […ma] devono trascrivere e impaginare con chiarezza quello che i liturgisti decidono: nelle cupole il Cristo pantocratore, nelle absidi la Vergine, intorno a lei la divina liturgia e la comunione degli apostoli, nelle navate i santi e le dodici feste maggiori della Chiesa, nell’ingresso il Giudizio universale e nel nartece la vita di Maria. […]

Cappella del SS. Sacramento, VII-XIII sec.
Mosaico
Torcello, Santa Maria Assunta.

   

Vergine e apostoli, XII-XIII sec.
Mosaico dell’abside centrale
Torcello, Santa Maria Assunta.

Giudizio Universale, XII-XIII sec.
Mosaico
Torcello, Santa Maria Assunta.

            

Nell’iconografia cristiana l’immagine sacra tende a isolarsi dagli accidenti del mondo per scelta. Il suo punto di arrivo […è] la luce della rivelazione. Così ancora oggi la Madonna di Torcello appare ritagliata su quella luce dorata che l’assenza di angeli e santi rende più bizantina e il Giudizio Universale, sulla parete opposta, più angelica. […]


Particolare.

Nella rappresentazione bizantina lo spettatore di per sé non ordina nulla. Anzi è lui a essere osservato da distanza infinita, […] l’occhio frontale del Cristo bizantino lo segue ovunque […] e una distanza infinita separa il sacro dal mondo che lo ammira. […] I fedeli illetterati […] emozionati dalla ieratica calma della sacra rappresentazione, […] si sentono sfiorati dalla grazia divina. […] Un muro di fondo sospinge tutti sul primo piano del proscenio, insieme ai loro gusci architettonici. Su quel muro così occlusivo, e senza l’articolazione del frons scenae pompeiano, si appoggiano di sghimbescio le pareti laterali dei troni e delle nicchie che inscatolano le figure. […] Una voluta sproporzione sbarra il ritorno all’illusionismo. […]

Portale di Sant’Alipio, XIII sec.
Mosaico
Venezia, San Marco.

Il contesto in cui agivano i pittori non era quello legato alla restituzione di paesaggi e di oggetti visti, ma un lavoro di riproduzione da repertori, libri e cartoni. Un lavoro che non doveva avere nessuna verifica visiva […] In questa fase di disegno, per così dire senza pensiero, i mosaicisti potevano facilmente compiere degli errori di interpretazione o sentirsi legittimati a prendere delle scorciatoie grafiche. Un esempio di queste disattenzioni è ben rappresentato nell’Ospitalità di Abramo in San Vitale a Ravenna […dove il mosaicista confonde] il davanti con il dietro nella posizione dei piedi. […]

La rinascita dell’ombra

[…] Alla fine del Duecento dalla rappresentazione dei grandi temi cristologici si passa alla vita dei santi. Quando il francescanesimo porta lo sguardo dello spettatore dal piano della liturgia a quello della vita terrena, i pittori si trovano a dover mischiare la vita dei santi a quella dei mercatores. […] Il divino si stempera nella vita dei santi e la lingua volgare di Dante apre l’impenetrabile cultura dei monasteri ai laici. Le scuole di abaco portano le cifre arabe e il sistema posizionale nell’aritmetica mercantesca. Le città rifioriscono e il sacro allenta progressivamente la morsa sul pensiero profano.
Lo sguardo ammira le storie che raccontano la vita del Santo nelle scatole spaziali di Giotto e libera la pittura dall’amnesia spaziale in cui si era impuntata la pittura bizantina. […] Ora quell’impalpabile pulviscolo dorato solidifica nel mondo cubico di Giotto dove le figure e le architetture si riappropriano dell’ombra che segna le pieghe sulle vesti e le sporgenze sulle facciate. Generata da una luce che piove da un cielo solido, l’ombra […] vibra tra i panneggi dei mercanti. Quell’ombra segna il passaggio dall’abbagliante luce dei fondi oro alla corporeità della nuova rappresentazione.

L’ospitalità di Abramo, VI sec.
Mosaico
Ravenna, San Vitale.

Giotto
Il presepe di Greccio, 1296-1304
dal ciclo di affreschi con Storie di san Francesco
Assisi, San Francesco, basilica superiore.

   

Giotto
Pianto delle clarisse, 1296-1304
dal ciclo di affreschi con Storie di san Francesco
Assisi, San Francesco, basilica superiore.

[…] Le figure lasciano le cornici architettoniche che le inquadravano ed entrano nella vita reale. Le architetture […] diventano paesaggio urbano, indietreggiano e si dispongono angolarmente per far posto ai corpi […] le figure sembrano impazienti di lasciare la sacralità dello spazio-luce per entrare nello spazio-luogo. E quando Giotto rappresenta il retro di un crocefisso nel presepe a Greccio, si capisce che l’estaticità della visione frontale è finita per sempre. La pittura entra nelle case, distingue un dentro e un fuori, un davanti e un dietro, ritma l’incedere e il sostare. […] L’uomo incontra il divino attraverso il senso più ingannevole e più immediato: la vista. […Nel primo decennio del Quattrocento Brunelleschi applica le cognizioni ottico-geometriche al rilievo a distanza] la prospettiva diventa la “forma simbolica” più adeguata per rappresentare il mondo con quel punto di vista che lo inquadra e lo prospetta in tutta la sua bellezza. […] La Classicità ritorna sotto gli occhi degli uomini e si ricongiunge saldamente alla Modernità». (Scolari 2005)