VILLA BARBARO
 

Iniziata nel 1556
Maser, Treviso.

La villa fu commissionata dai fratelli Barbaro, proprietari del territorio di Maser dal 1339: Marcantonio – ambasciatore, senatore, governatore della Terraferma -, aveva un ruolo decisivo nelle scelte architettoniche della Repubblica; Daniele, patriarca di Aquileia, aveva curato la prima traduzione del trattato di Vitruvio, illustrata da Palladio e pubblicata a Venezia nel 1556.
Qui l’architetto per la prima volta allinea in un’unità compatta la casa padronale alle barchesse, creando un equilibrio perfetto tra le esigenze concrete dell’azienda agricola e il desiderio di svago. Le colombaie laterali sono mascherate dalle facciate con meridiane che, coronate da timpano e raccordi laterali, ben si armonizzano con il corpo centrale aggettante. Sfruttando il declivio del colle, studia una distribuzione planimetrica articolata su vari piani e, grazie ad un sofisticato sistema idraulico, utilizza una sorgente vicina per canalizzare l’acqua negli ambienti di servizio. Acqua che serve anche per l’irrigazione agricola e per dare vita a un laghetto, alle peschiere e a un decoratissimo ninfeo, elemento evocativo dell’antica Roma.

Planimetria del piano nobile
(A. e E. Pereswet Soltan, 1969).

Ninfeo.

All’interno Paolo Veronese ha realizzato uno dei più straordinari cicli di affreschi del Cinquecento veneto: l’illusoria decorazione, aperta su paesaggi immaginari con finti personaggi in finte architetture, sembra confondersi con le reali vedute che si scorgono dalle finestre.
«La forza e qualità dello spazio illusionistico che si sovrappone a quello palladiano ha fatto pensare a una sorta di conflitto fra pittore e architetto, tanto più che Veronese non viene citato nella didascalia della tavola dei Quattro Libri dedicata alla villa. […] influenzato dal gusto e dalla personalità dei Barbaro, è molto probabile che Palladio si sia ritagliato per sé un ruolo tecnico e di coordinamento generale, lasciando ai committenti largo spazio per l’invenzione». (Beltramini, Padoan 2000, p. 160)


Paolo Veronese
Affreschi, 1561-62.

         

Dal racconto La grande villa

«Andrea guardava la vòlta con le figure affacciate dalla balaustra; e strizzando gli occhi cercava – o almeno tentava di vedere lassù le crepe che avevano tanto allarmato il Barbaro; e intanto, dalla crocera, allungava gli occhi nelle camere vicine. Si confermava la descrizione delle pitture che gli avevano fatto i viaggiatori: sui muri, fra le paraste bianche, grandi vedute di campagne deserte, con case e rovine, il fiume, l’Anfiteatro antico fra i boschi. Da finte porte entrava un servo, una bambina spiava dalla stanza. […]
Andrea, seduto allungava gli occhi senza curiosità verso le stanze lontane. Gli pareva che tra l’intimità delle piccole camere e le false porte, le lance e le bandiere, le vedute dipinte vi fosse un’incomprensione totale, un dialogo fra sordi. Ma oramai, era fatta. Sarebbe stato ridicolo – adesso che lo aveva constatato con i propri occhi – buttare in commedia quello che nei Quattro libri era rimasto coperto dal silenzio. […]
Andrea pensava che pitturando i muri di Maser, Paolo non era stato nemmeno sfiorato dall’impianto della villa, dalle misure delle stanze, dall’orientamento delle finestre. Anzi, dipingendo tra le colonne e le paraste e dentro le arcate – così che era impossibile trovare un palmo di muro bianco – aveva inventato altri spazi e misure, che stavano con quelli reali come l’acqua col fogo. […]» (Pozza 1972, pp. 151, 152, 153)