IVB 

Gabriele D'Annunzio

Da Il Fuoco di Gabriele D'Annunzio: il labirinto di Villa Pisani

- Ah, è il labirinto.
Un cancello di ferro rugginoso lo chiudeva, tra due pilastri che portavano due Amori cavalcanti delfini di pietra. Non si scorgeva di là dal cancello se non il principio di un tràmite e una sorta di selva intricata e dura, un'apparenza misteriosa e folta. Dal centro del- l'intrico s'alzava una torre, e in cima della torre la statua d'un guerriero pareva stesse alle vedette.
- Sei mai entrata in un labirinto? - chiese Stelio all' amica sua.
- Mai - ella rispose.
S'indugiarono a mirare quel gioco fallace composto da un giardiniere ingegnoso per il diletto delle dame e dei cicisbei nel tempo dei calcagnini e dei guardinfanti. Ma l'abbandono e l'età l'avevano inselvatichito, in- tristito; gli avevano tolto ogni aspetto di leggiadria e di eguaglianza; l'avevano mutato in una chiusa macchia tra bruna e giallastra, piena di ambagi inestricabili, ove i raggi obliqui del tramonto rosseggiavano cosl che i cespi qua e là vi parevano roghi che bruciassero senza fumo.
- È aperto - disse Stelio sentendo cedere il cancello nell'appoggiarvisi. - Vedi?
Egli sospinse il ferro rugginoso che stridette sui cardini malfermi; poi diede un passo varcando il limitare.
- Che fai? - disse la sua compagna, con un timore istintivo, stendendo la mano per trattenerlo.
- Non vuoi che entriamo?
Ella era perplessa. Ma il labirinto li attirava col suo mistero, illuminato da quella fiamma profonda.
- E se ci perdiamo?
- Vedi: è piccolo. Ritroveremo facilmente l'uscita.
- E se non si ritrova?
Egli rise della paura puerile.
- Rimarremo a girare in eterno.

- Stelio!
- Cercami! -ridendo egli le rispose, invisibile.
Ella si slanciò nell'intrico per ritrovarlo; andò diritta verso la voce e il riso, portata dall'impeto. Ma il sentiero si torse; una muraglia di busso cieca le si parò dinanzi, l' arrestò, impenetrabile. Ella seguì la tortuosità ingannevole; e una svolta succedeva all'altra, e tutte erano eguali, e il giro pareva non aver fine.
- Cercami! - ripetè la voce di lontano, a traverso le siepi vive.
- Dove sei? Dove sei? Mi vedi?
Ella cercò qua e là le radure per ficcarvi lo sguardo. Non scorgeva se non la trama spessa dei rami e il rossore del vespro che li accendeva tutti da una banda mentre l'ombra dall'altra li annerava. I bussi e i càrpini erano commisti, le foglie sempreverdi si confondevano con le morienti, quelle più fosche con quelle più pallide, in un contrasto di vigore e di languore, in un'ambiguità che aumentava lo smarrimento della donna ansante.
- Mi perdo. Vienimi incontro!
Di nuovo il riso giovenile squillò nel folto.
- Arianna, Arianna, il filo!
Ora il suono veniva dalla parte opposta, la feriva alle reni come uno stocco.
- Arianna!
Ella si volse, corse, girò, tentò di penetrare la muraglia, allargò la fronda, spezzò un ramo. Non vide nulla fuorché l'intrico molteplice ed eguale. Udì alfine un passo così da presso che credette di averlo alle spalle, e trasalì. Ma s'ingannava. Esplorò anche una volta l'irremeabile carcere arborea che la serrava, ascoltò, attese; udì il suo proprio anelito e il battito dei suoi polsi. Il silenzio era divenuto altissimo. Ella guardò il cielo che s'incurvava immenso e puro su le due pareti ramose in cui ella era prigione. Pareva che non vi fosse al mondo se non quell'immensità e quell'angustia. Ed ella non riusciva a separare col suo pensiero la realtà del luogo dall'imagine del suo supplizio interiore, l'aspetto naturale delle cose da quella specie di vivente allegoria creata dalla sua propria angoscia.
- Stelio, dove sei?
Non le fu risposto. Ascoltò. Attese invano. Gli attimi sembravano ore.
- Dove sei? Ho paura.
Non le fu risposto. Ma dov'era andato egli? Aveva ritrovato forse l'uscita? L'aveva lasciata là sola? Voleva continuare quel gioco crudele?

Eleonora Duse